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GENDER GAP: LA DIFFERENZA SALARIALE E’ SOLO UNA PARTE DEL PROBLEMA

di Stefania Fanari, Associate Partner yourHR

Pochi giorni fa la Camera ha approvato all’unanimità la legge sulla parità salariale, sicuramente un passo avanti verso l’obiettivo di ridurre il cosiddetto gender pay gap, ma la soluzione proposta non risolve alla radice il problema che causa le differenze salariali: le discriminazioni sono dovute a bias cognitivi culturali diffusi, quindi da percezioni soggettive che operano a livello di inconscio.

Cosa propone la legge

La legge approvata alla Camera dovrà attendere la risposta del Senato, ma il risultato di 393 voti favorevoli provenienti da tutte le principali forze politiche fa ben sperare che la conclusione positiva non tardi ad arrivare. 

Le misure previste all’interno della legge si basano su due aspetti: il monitoraggio delle misure adottate dai datori di lavoro tramite una attestazione che dovranno presentare le aziende che contano più di 50 dipendenti – in precedenza era previsto solo per le aziende con più di 100 dipendenti – e un sistema premiante che incentivi le aziende più virtuose in termini di equità e politiche contro il divario di genere.

Il limite delle misure proposte dalla legge è che le aziende agiscano in virtù del rispetto di numeri statistici generali richiesti piuttosto che di reale meritocrazia. 

Come intervenire ulteriormente a livello legislativo

Nel sistema normativo italiano è già previsto dai contratti collettivi nazionali l’obbligo del rispetto del medesimo trattamento retributivo a prescindere dall’identità di genere. Se la realtà dei numeri ci dice che esiste un divario retributivo così importante la causa non è (solamente) per mancanza di leggi dedicate. E’ necessario fare uno sforzo maggiore per individuare le reali cause, e poter risolvere il problema alla radice.

Questo significa che è necessario operare ad un livello più profondo, che permetta di aggirare il più possibile i bias cognitivi dovuti a valutazioni soggettive, e favorire i sistemi di valutazione che prevedano l’utilizzo di strumenti oggettivi.

Gli interventi importanti da implementare a livello legislativo e che porterebbero a miglioramenti tangibili in breve sono su due fronti:

  1. Agevolare le aziende nella formazione a tutti i livelli sui temi della diversità e inclusione, allo scopo di ridurre i pregiudizi e sviluppare una nuova cultura virtuosa.
  2. Agevolare le aziende nella implementazione di strumenti di valutazione oggettivi del personale, tramite la digitalizzazione dei processi di valutazione. Esistono a tale scopo già numerosi tool digitali di valutazione nei processi di selezione e nella valutazione del personale all’interno dei percorsi di carriera.

Basterebbe dunque prevedere a livello governativo un sistema premiante per le aziende che implementino al proprio interno i sistemi di valutazione certificati ufficialmente e verificati.

Quale soluzione per le aziende?

E’ ormai ampiamente dimostrato da numerosi studi che le aziende a maggiore tasso di inclusività (e dunque meritocratiche) registrino maggiori risultati non solo in termini di clima aziendale ma anche in termini di performance economiche (48% nel caso della diversità di genere) e di interesse da parte degli investitori (il 71% lo ritiene un elemento rilevante).

Non vi è dunque di che stupirsi che le migliori imprese italiane si stiano adoperando per implementare nuovi intereventi al proprio interno per favorire l’inclusività a tutti i livelli.

Alcune pratiche già in uso in alcune aziende sono la sensibilizzazione e la formazione – come già detto azioni imprescindibili per l’evoluzione della cultura – che però implicano dei risultati tangibili nel medio-lungo periodo. In alcune aziende sono state inoltre implementate altre pratiche che si sono rivelate meno efficaci in termini di meritocrazia, come ad esempio l’applicazione di percentuali obbligatorie di quote rosa (o quote arcobaleno per l’inclusività di personale appartenente alla comunità LGBT+) all’interno dei team di lavoro. Il rischio dell’applicazione di obblighi percentuali è di favorire l’inclusività di alcune persone solo perchè appartenenti a specifiche categorie, ancora una volta evitando le valutazioni oggettive e indiscriminate del reale merito.

La maniera più concreta per evitare le discriminazioni e garantire una inclusività meritocratica è aggirare i sistemi soggettivi di valutazione, applicando sistemi di valutazione oggettiva.

Partendo da esempi pratici, nei paesi europei al di fuori dell’Italia è ormai prassi riconosciuta l’evitare di specificare all’interno del proprio curriculum vitae la propria data di nascita. Ciò permette di aggirare in parte le discriminazioni verso un’altra categoria svantaggiata, gli over 50. E’ sufficiente applicare il medesimo principio a tutte le caratteristiche che sappiamo possano causare valutazioni influenzate da pregiudizi soggettivi.

A tutti i livelli di gestione del personale, i sistemi di valutazione devono dunque prevedere nelle diverse fasi l’utilizzo di sistemi digitali a supporto dei processi.

Nella fase di recruiting la raccolta dei dati dei curriculum vitae in valutazione da parte del recruiter deve essere privata dei dati di: nome e cognome, identità di genere, data di nascita e età, etnia, foto.

Ciò garantisce una valutazione oggettiva del curriculum vitae basata esclusivamente sul percorso professionale, formativo e sulle competenze dichiarate.

Nelle fasi di selezione devono essere previsti degli step di valutazione delle conoscenze, competenze e attitudini tramite l’utilizzo di test e tool di valutazione digitali. Ciò garantisce che i selezionatori possano avvalersi di dati concreti ancora prima dell’incontro durante i colloqui conoscitivi.

Per le persone assunte, nelle fasi di gestione dei percorsi di carriera devono essere implementati dei sistemi di valutazione delle risorse che rispecchino KPI oggettivi a livello quanti-qualitativo, e che garantiscano dunque l’equità degli avanzamenti e dei sistemi premianti.

I bias cognitivi operano a livello inconscio, le persone che sono nella posizione di valutare molto spesso non hanno alcuna volontà di discriminare, semplicemente non si accorgono che inconsciamente favoriscono alcune categorie di lavoratori sfavorendone altre. Negare la percentuale di errore nelle valutazioni soggettive vuol dire ignorare un problema reale e su cui è necessario lavorare in maniera seria e trasparente per poterlo risolvere.


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  • Posted by yourhr
  • On 18 Ottobre 2021
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